Il Bocia Bambino
ovvero il Buon Natale

Mi chiamo Natale, e adesso che ho quasi ottant’anni sempre più
spesso ripenso alla mia storia. Anche stasera, mentre presenzio a
questa serata di beneficenza tra persone dell’alta società, sono
assalito dai ricordi, forse perché, nel venire qui, mi sono reso conto
di trovarmi nelle stessa zona della città nella quale è iniziato tutto.
Si abbassano le luci, si smorzano le voci, tutti spengono i telefoni.
«Siamo particolarmente lieti di ritrovarci riuniti come ogni anno nel
periodo natalizio» dice il presentatore «proprio come una grande
famiglia!».
Sono cresciuto in un orfanatrofio, non ho mai saputo chi fossero i
miei genitori. Tutto quello che so è che le suore mi hanno dato
questo nome perché sono nato la notte di Natale del 1943. C’era la
guerra, l’Italia era divisa in due, al nord i tedeschi, al sud gli alleati.
Le vetrate ghiacciate della grande camerata sono i miei primi ricordi
d’infanzia. Le notti erano un continuo risvegliarsi scossi da brividi di
freddo e attanagliati dai morsi della fame.
Ero scappato dall’istituto qualche giorno prima di compiere 10 anni,
nel Natale del 1953. Ero andato in centro. Ricordo lo stupore di
quella sera nel vedere le vie e i negozi del centro addobbati di
festoni e luci natalizie. Spiavo nelle vetrine le famigliole felici e le
commesse che incartavano i regali. Ma poi i negozi avevano chiuso,
e ogni persona tornava al calduccio della sua casa. Aveva iniziato a
nevicare, e non sapevo dove andare. Continuavo a camminare
senza fermarmi per la paura che un vigile mi chiedesse dove
abitassi. Senza rendermene conto, stavo tornando all’orfanatrofio.
Avevo talmente sonno che mi si chiudevano gli occhi mentre
camminavo. E così ero andato a sbattere nelle transenne di quel
cantiere.
Riapro gli occhi. La signora seduta accanto a me nella prima fila
della platea mi sorride con affetto, togliendo la mano dal mio
braccio. Capisco che mi ha toccato per tenermi sveglio.
Sul palco il presidente di qualcosa sta finendo il suo discorso, o
forse sta ancora iniziandolo. Non fa che dire ringrazio questo e
ringrazio quello.
Oggi sono un imprenditore edile affermato e stimato, e mi tocca
partecipare a serate noiose come questa. Ma non sarebbe bello
russare in diretta televisiva. Ringrazio con un cenno la mia vicina, e
solo adesso la riconosco, è una nota pediatra infantile. Dirige il
nuovo reparto maternità e pediatria che insieme ad altri imprenditori
ho contribuito a sovvenzionare. Ma non ricordo il nome.
Ora sul palco c’era un assessore elegantissimo. Sembra un attore.
Parla di solidarietà e sostenibilità, condivisione e sostenibilità, servizi
sociali e sostenibilità. Davvero insostenibile.
Senza volerlo, torno ai miei ricordi, a quella notte di tanti anni fa.
Avevo superato le transenne ed ero entrato nel cantiere. In
lontananza, oltre lo scavo delle fondazioni c’erano le ruspe, le gru, la
betoniera e una piccola baracca. Mi ero diretto in quella direzione
attirato da quelle grandi macchina escavatrici. Ero salito sulle ruspe,
immaginando di manovrarle. Tremavo dal freddo. Un sottile strato di
neve stava ricoprendo ogni cosa.
Avevo provato la maniglia della porta della baracca. Era aperta.
C’era un piccola stufa a gas e una brandina.
«Ehi…».
Di nuovo la mia vicina mi sta scuotendo per il braccio. L’assessore
ha finito e tutti si stanno alzando per raggiungere il vero interesse
della serata: la zona del buffet.
Mi ero svegliato affamato, come sempre. Un muratore mi guardava
con faccia severa.
«Sei scappato dall’orfanatrofio».
«Voglio fare il muratore».
Avrebbe potuto prendermi per le orecchie e sbattermi fuori a calci.
Si tolse la sacca che aveva in spalla, ne tirò fuori un cartoccio.
«Devi diventare più forte».

Due fette di polenta fredda. Dentro c’era un’acciuga. La felicità che
provai! Il regalo più bello che avevo mai ricevuto.
Così avevo iniziato a fare il bocia. Ma ero ancora un bambino. Mi
chiamavano il bocia bambino. La notte dormivo nella baracca.
«Ingegnere, posso farle qualche domanda?».
Davanti a me c’è una ragazza con un microfono in mano. Alle sue
spalle un uomo con la telecamera mi sta inquadrando.
«Mi scusi, ero sovrappensiero» rispondo, e mi defilo.
Cosa potrei dire? Quello che vogliono sentire, che il settore è in
ripresa? O la verità, che nessuno vuole più fare questo lavoro? Che
nessun ragazzo vuole più imparare l’arte del costruire?
Mentre mi avvio verso l’uscita, con la coda dell’occhio vedo la
dottoressa. Sta guardando un messaggio che ha ricevuto,
dev’essere qualcosa di importante. Si affretta all’uscita, mi passa
vicino senza vedermi. Improvvisamente mi ricordo il suo nome e la
chiamo.
«Un’emergenza?».
«Si, in un certo senso… ».
«Ha l’auto qui fuori?».
«No purtroppo, devo chiamare un taxi».
«Lasci che l’accompagni, stavo giusto andando via».
Nel breve tragitto mi spiega di cosa si tratta.
«Vuole farmi un regalo, dottoressa?».
«Se posso…».
«Mi permetta di entrare con lei».
«Potrebbe non essere piacevole. A volte ci sono problemi così gravi
che… insomma, potrebbe non essere una favola a lieto fine».
Sto quasi per chiederle “lei sa chi sono io?”, ma fortunatamente non
ce n’è bisogno.
Dice: «D’accordo, va bene, se davvero ci tiene… ».
«Grazie».
«Sapesse quanti ostacoli burocratici abbiamo dovuto affrontare e
superare per poter fare… questa cosa».
Lo sapevo bene. Ero stato io a volere “questa cosa” a tutti i costi.
Avevo smosso mari e monti per ottenere i permessi. Sempre
restando dietro le quinte. Non mi è mai interessata la pubblicità.
«Ci siamo, entri pure dall’ingresso ambulanze».
Un’infermiera ci viene incontro sorridente.
«Nessunissimo problema!» dice.
Dopo un attimo mi ritrovo alla mia età a commuovermi come un neopapà
davanti alla culla del neonato, catturato dal miracolo,
dall’energia, dalla vita che sprizza da quella minuscola creatura che
agita le manine davanti a sé.
«Grazie dottoressa».
Poi mi accompagna fuori, mi mostra come funziona “la cosa” e mi
spiega cose che so già, ma la ascolto volentieri.
«Nel medioevo era presente in ogni convento. Per secoli ha
rappresentato l’alternativa all’aborto o all’infanticidio».
La ruota, il nome della “cosa” è la ruota. Come una porta girevole.
«I bambini venivano battezzati e registrati all’anagrafe con cognomi
come Diotallevi e simili. Anche il cognome Rota, che significa ruota,
ha questa origine».
Non posso evitare di sorridere. Ma dopo un attimo sento che mi
scendono due lacrime. Faccio per girarmi, ma lei se n’è accorta.
«Ho detto qualcosa di sbagliato?».
«No, dottoressa. Sono io che ormai sono un vecchio patetico, facile
a emozionarsi… vede, questa sera, a quasi 80 anni, per la prima
volta sono felice d’essere nato… quel bambino… anche io…».
Mi guarda senza capire bene cosa stia dicendo.
«Non importa, buon Natale dottoressa!»
Nel prendere commiato le dò il mio biglietto da visita. Un biglietto
semplice, con il mio nome e il mio cognome stampati a chiare
lettere: Ing. Natale Rota.
La sua voce mi raggiunge alle spalle, emozionata e carica d’affetto
come ogni augurio dovrebbe essere.
«Buon Natale a lei… ».
E poi ancora: «Grazie Natale! Lei è davvero.. il buon Natale!».

racconto di Natale di Leone Belotti per Taramelli

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