Un posto per tutti

Un grande privilegio, un piacere fantastico, a tu per tu con un grande maestro che ti tratta come un amico, ti parla con semplicità, senza fretta, ti racconta le sue esperienze, ti illumina, ti fa riflettere, ti emoziona. Arrivi all’ultima pagina e chiudi il libro, ma la sua voce continua ad aprirti la mente.

Richard Rogers è stato un protagonista dell’architettura contemporanea, ha segnato questi ultimi 50 anni con la sua visione, i progetti, le opere, ma anche con il modo di porsi, di lavorare con gli altri.

“Un posto per tutti” non è solo la sua autobiografia, ma un messaggio, un’eredità preziosa che ci lascia: il senso dell’architettura, dello spazio costruito, è realizzare “un posto per tutti, giovani e anziani, poveri e ricchi, di ogni credo e nazione”. Con queste parole, 50 anni fa, presentava insieme al socio-amico Renzo Piano il progetto del concorso per il Beaubourg, l’opera che più di ogni altra ha acceso l’immaginario collettivo della generazione ribelle.

Rogers ci riporta al valore sociale della tecnologia,  la carica democratica, rivoluzionaria: “la tecnologia è la materia prima dell’espressione architettonica, l’equivalente delle parole in poesia”. Così come parole nuove creano un mondo nuovo, i nuovi materiali e le nuove tecnologie hanno permesso di progettare spazi aperti, leggeri, per tutti, modulari, adattabili. Con Piano e Foster prende vita l’architettura High Tech.

Il Millennium Dome di Londra, ribattezzato O2 Arena, il super-spazio per tutti, il bozzolo, il cocoon della specie umana, dove poter vivere il sentimento di massa, il bagno di folla, come esperienza positiva, di comunione, non di oppressione.

Il modulo Aram, un’idea visionaria, fanta-scientifica, non realizzata, le fondamenta-gru che auto-costruiscono la struttura work in progress, l’edificio diventa una specie di creatura viva, come un albero che si sviluppa dalle radici alla corolla.

Ma soprattutto il Beaubourg, dove niente è nascosto, tutto è a vista, elementi strutturali e infrastrutturali in facciata, leggibili e colorati: blu per l’aria, verde per l’acqua, giallo per l’elettricità, rosso per i sistemi di risalita. Un manifesto della cultura contemporanea, accessibile, multiforme, essenziale come un’ingegneria industriale, una fabbrica di cultura, aperta, senza rivestimenti, un manifesto di coerenza forma/funzione, contro l’ipocrisia del sembrare altro da quel che si è, da sempre croce e delizia dell’architettura e del design. Non sono belle le tubature del Beaubourg? Non sono belli gli abiti da lavoro? Come la moda, anche l’architettura dopo il ’68 diventa democratica e rifiuta il lusso. L’edificio non è più simbolo di status quo, ma segno di work in progress, luogo delle opportunità per tutti e non del potere dei pochi. Un’architettura fatta di luce e aria. Rogers ci racconta le parole guida e le sfide affrontate nella realizzazione del Beaubourg, nelle quali tutti anche oggi ci possiamo riconoscere.

Le parole: modularità, leggerezza, flessibilità, trasparenza, compressione, tensione, prefabbricazione. Le sfide: le normative, la burocrazia, il budget, le lobby professionali, gli interessi dei gruppi industriali, gli schieramenti politici.

Autore di mega architetture, insignito del titolo di baronetto, Richard Rogers ha continuato per tutta la vita a ideare mondi “per tutti”, senza mai perdere lo spirito libero e democratico degli inizi. Racconta i problemi di dress code che ebbero quando con Renzo Piano furono proclamati vincitori del concorso per il Beaubourg e vennero convocati a Parigi per essere ricevuti dal Presidente della Repubblica Francese. Oppure le mille traversie, i rimedi impensabili, le corse contro il tempo che segnano l’iter dal progetto all’edificio.

Ma la cosa che più mi ha colpito è lo stile di vita e di pensiero, libero dai falsi bisogni. Il viaggio di nozze in autostop! L’aver lavorato con gente come Foster o Piano e il raccontarlo con leggerezza e discrezione, senza alcun vanto. Il ricordo di amici e collaboratori importanti non per il nome, ma per il rapporto umano. Ecco, soprattutto questo: la fonte della vera forza di chi progetta e costruisce, che non è nella fama o nelle risorse finanziarie, ma nel clima psicologico che anima il gruppo di lavoro, nell’aria che si respira all’unisono. La profondità dell’essere insieme e perseguire un obiettivo comune, l’entusiasmo, la complicità, la responsabilità condivisa e la fiducia reciproca. Ma anche l’allegria e i momenti giocosi, conviviali. Allora anche il carico di ansia che sempre costituisce l’altra faccia di ogni sfida costruttiva è distribuito in modo uniforme, e l’edificio regge. Quando si crea questa atmosfera, niente è impossibile, i problemi innescano nuove soluzioni, il lavoro è energia pura. Tutti l’abbiamo sperimentato, tutti vorremmo lavorare sempre così.

L’amore di Rogers per i propri collaboratori insegna questo: lavorare insieme, collaborare, è la forma più alta d’amore per il lavoro. Non il proprio lavoro o il mio lavoro, quello che amo è il nostro lavoro. E lo dice l’archistar delle archistar.

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