L’incudine di Leonardo

quando si alza il vento, bisogna cominciare a vivere

report di primavera by Leone Belotti e Giuseppe Taramelli

 

Leone è uno scrittore, Giuseppe un costruttore. Un paio di volte al mese, a metà settimana,  si scambiano brevi messaggi.

Uno dei due scrive: «Sabato?».

L’altro quasi sempre risponde: «Ok».

Il sabato mattina si incontrano al casello di Bergamo. Chi ha lanciato l’invito, conosce la meta; l’altro, no. Anche oggi è la stessa cosa. Prendono l’autostrada in direzione Milano.

Giuseppe inizia a parlare.

«Questa storia comincia un sabato di primavera del 1981. Avevo 15 anni, mia madre mi svegliava alle 5, facevo il bocia per mio padre e mio zio».

Leone pensa: stiamo andando a Milano.

A Milano, al Palazzo delle Stelline, proprio di fronte a Sant’Ambrogio, è in corso una mostra fotografica  sul lavoro edilizio ideata e promossa da Giuseppe. Nella serata d’inaugurazione, il venerdì della settimana antecedente, Leone ha confessato a Giuseppe di non aver mai visto il cenacolo di Leonardo.

Di solito hanno appuntamento con qualcuno, con qualche pretesto, ma il loro vero scopo è sempre vedere qualcosa, un edificio, un luogo altrimenti inaccessibile.

In una delle loro prime uscite hanno accompagnato un noto e anziano designer in Veneto, a un convivio in memoria di un grande maestro, in una villa rinascimentale con una collezione impressionante di opere d’arte, ma il loro vero interesse era il segreto nascosto nelle scale d’epoca moderna, di cemento grezzo, l’anima Carlo Scarpa.

In un’altra occasione a Como, con una giovane contessa inglese impegnata, per conto di una prestigiosa fondazione, in uno studio di nuova concezione sul lavoro di Terragni, il razionalismo di Terragni, le gettate degli edifici di Terragni, il quale, avevano saputo dalla studiosa, era morto in modo per nulla razionale, gettandosi dalle scale, per amore.

Quasi sempre, queste loro escursioni psico-geografiche, seguono le vie d’acqua, i fiumi, i laghi. Sono stati sul lago d’iseo, alle cave del ceppo di Grè. Lungo l’Adda, nei luoghi di Leonardo, dove Giuseppe ha ristrutturato l’edificio sede del parco. Più volte a Milano, sempre seguendo le tracce di architetti e ingegneri che hanno cambiato la fisionomia e anche la fisiologia della città, ripercorrendo la cerchia dei navigli e rileggendo i manufatti d’ingegneria, a partire da Leonardo per arrivare alle archistar di oggi, ma soprattutto andando in cerca di quegli interventi poco noti, ma veramente perfetti, realizzati da ingegni misconosciuti, come è il caso, restando alla opere idrauliche in Milano, dell’ingegner Murnigotti.

«Chi?».

L’ingegner Murnigotti, originario di Martinengo, è uno di quei profili che accendono il dibattito tra i nostri due esploratori urbani. Artefice di grandi opere e innovazioni fondamentali – il canale di Suez, il brevetto d’invenzione della motocicletta (che tutti attribuiscono al Daimler, che realizzò l’idea del nostro) o dell’auto-betoniera, così come il progetto del nuovo centro di Bergamo con l’idea inedita del cono ottico sul panorama urbano fatta sua dal Piacentini e diventata poi lo standard della progettazione urbanistica del Novecento – il Murnigotti è comunque destinato all’anonimato. E come lui la maggior parte degli ingegneri che hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere. I nostri due amici hanno perfino risalito il Lambro, sulle tracce delle invenzioni di un altro grande ingegnere avviato all’oblio.

«L’Innocenti, chi conosce l’Innocenti?».

L’ingegner Innocenti è il papà della Lambretta, cioè lo scooter che ha preceduto la Vespa, nonché costruttore di automobili (la Mini 90 Innocenti) ha rivoluzionato il mondo dell’edilizia grazie a un geniale e banale snodo che ha reso i tubi che portano il suo nome, i tubi Innocenti, lo standard mondiale dei ponteggi: ma chi lo conosce?

A margine di queste uscite sta prendendo forma un’idea, una teoria interpretativa in relazione al cosiddetto genio italiano. In sintesi, i nostri due viaggiatori pongono una questione chiave: per quale motivo, fin dal Rinascimento, ma in misura preponderante nell’ultimo secolo, il genio italiano viene riconosciuto e osannato nel campo dell’arte, della scultura, dell’architettura, del design e della moda mentre è quasi totalmente ignorato il genio tecnico, tecnologico,  l’ingegno di chi costruisce, scopre, applica, inventa? Perché nelle scuole si insegna e si studia la storia della letteratura, dell’arte, dell’architettura ma poco o niente si tramanda sulla storia dell’ingegneria in ogni sua ramificazione, edilizia, meccanica, chimica, informatica?

«Dal Cardano a Viterbi, quanti geni ignorati».

Tutti conoscono e sanno cos’è il cardano, il giunto cardanico, specialmente chi guida una Moto Guzzi o una Bmw, pochissimi sanno che prende nome dell’ingegnere Cardano che lo inventò.

«E il telefonino? Qualcuno sa chi ha inventato il telefonino?».

No, nessuno lo sa. Eppure è un italiano, un ingegnere di Bergamo, totalmente sconosciuto al grande pubblico, Andrea Viterbi, che nel 1966 ebbe l’idea e creò l’algoritmo della tecnologia GPS che consentì l’avvento della telefonia mobile.

«E il grande Pierluigi Nervi?».

Lo stesso Leonardo deve la sua notorietà più al suo lavoro d’artista, di pittore, alla Gioconda, alla Vergine delle rocce e all’Ultima Cena, che non alle migliaia di invenzioni tecniche, sia realizzate, come le chiuse idrauliche, che destinate al futuro, come l’aereo, l’elicottero, l’auto-mobile, il sottomarino.

Come se la rappresentazione avesse sempre il primato sulla cosa stessa. L’arte futurista è nei libri di storia, le creazioni tecniche che ispirarono i futuristi no. Chi disegna, il designer o l’architetto, è riconosciuto; chi realizza, ingegnerizza e di fatto dà alla luce un progetto, resta nell’anonimato. Una forma di patriarcato: il nome del padre del progetto, il progettista che ha messo il seme, vivrà nella creatura; quello della madre, cioè l’impresa che ha accolto, nutrito, sviluppato e partorito la creatura, ovvero ingegnerizzato l’idea, è dimenticato.

Ma torniamo al presente, ai nostri due investigatori in viaggio verso Milano, all’indagine in corso, al racconto di Giuseppe a ritroso nel tempo.

«Si partiva col buio per andare a lavorare in qualche cantiere a Milano, in autostrada dormivo, poi a un certo punto dai grandi specchi retrovisori del Transit cassonato mi arrivava dritto in faccia il riflesso del sole nascente. A quel punto qualcuno dei veci mi dava il buongiorno con qualche insulto farcito di bestemmie, cose oggi irripetibili, che in realtà erano manifestazioni d’affetto».

Mentre Giuseppe racconta, giungono alla barriera di Milano.

«Ancora mezzo addormentato, vedo che invece della tangenziale prendiamo la Milano-Laghi. Allora chiedo dove andiamo, ma ovviamente mi rispondono come sopra, anzi, ancora più affettuosamente.».

Leone sorride. Stanno giusto imboccando la Milano-Laghi. Non è il caso di chiedere “dove stiamo andando?”.

Davanti a loro poco dopo appare lo scenario maestoso delle Alpi.

«Ci siamo» dice Giuseppe, e prende l’uscita Sesto Calende.

Siamo in un territorio storicamente vocato all’industria aeronautica. La strada corre lungo il campo di volo della celebre Savoia-Marchetti, assorbita negli anni Sessanta dalla Agusta.

«Abbiamo appuntamento con qualcuno?».

«Si, il responsabile della sicurezza».

L’incontro è fissato su lungolago. Un uomo di mezza età in jeans, mocassini e giacca blu viene loro incontro togliendosi gli occhiali da sole. Ha l’aspetto e il passo dello sportivo o dell’ex militare, pensa Leone. Presentazioni. Verifica delle credenziali.

«Seguitemi».

Camminano pochi minuti nel centro storico del borgo fino a raggiungere un alto muro che corre apparentemente senza fine, delimitando un’area gigantesca.  Arrivano a un varco presidiato da una guardia armata e solcato dai binari, è l’ingresso della linea ferroviaria. Con un cenno l’uomo garantisce per i due visitatori.

Al di là del muro c’è una città-fabbrica irreale, deserta, fatta di enormi capannoni che si susseguono come le epoche nei quali sono stati costruiti, dagli anni Venti ai giorni nostri. «Forse vi può interessare dare un’occhiata prima qui» dice la guida, avviandosi verso un basso edificio laterale, forse una vecchia portineria. Nessuna insegna. Lo seguono, entrano.

Stupore, meraviglia. Grandi stanze stipate di faldoni, libri, progetti originali. Fotografie, poster d’epoca, teche di vetro nelle quali sono esposti come gioielli organi meccanici, bulloni, eliche, sezioni di fusoliera. Ovunque modelli di aerei, idrovolanti ed elicotteri. Un archivio-museo, la storia di una fabbrica gloriosa.

«Qui si è fatta la storia dell’industria e dell’ingegno aeronautico, dai primi biplani in legno con le ali di tela ai moderni Tornado a reazione».

Tre ottuagenari, ex lavoratori dell’azienda, stanno salvando un patrimonio di memoria incredibile, nell’indifferenza della nuova proprietà. Nei loro occhi orgoglio e frustrazione. Sanno che dopo di loro tutto questo andrà perduto.

Le immagini, gli oggetti, i cimeli raccontano un’epoca nella quale il nostro paese era leader tecnologico a livello mondiale. L’epopea degli idrovolanti, il genio dell’ingegner Marchetti, la concorrenza con l’altro grande costruttore italiano dell’epoca, il conte Caproni. Parliamo di aziende che avevano decine di impianti produttivi in tutta Italia, e forza lavoro nell’ordine delle 50.000 unità.

Le imprese del mitico Sparviero doppia fusoliera motorizzato Isotta-Fraschini, reso celebre dalla transvolata Roma-Chicago della squadriglia Balbo. I primi aerei in alluminio, i primi motori a reazione, una serie impressionante di innovazioni tecnologiche in seguito riprese dall’industria americana. I brevetti e le soluzioni degli elicotteri Agusta, “rubati” e diventati core business della Bell.  E infine, in un angolo, la riproduzione della “strana creatura” che rappresenta il vero motivo della visita. Giuseppe si emoziona.

«C’è ancora?» chiede.

La guida annuisce. Spiega che l’opera si trova nel piazzale dell’ingresso principale, sul lato opposto. Escono dal museo-archivio, e iniziano a camminare lungo i viali tra i capannoni. Leone è incuriosito da uno strano manufatto che si intravede in lontananza, una specie di gigantesco tunnel che non sembra condurre da nessuna parte.

«Era la galleria del vento, una delle prime mai costruite».

Ora si stanno avvicinando nell’area moderna del grande sito produttivo dismesso.

«Siamo quasi arrivati, ma prima voglio darvi un’idea di quello che si fa oggi».

Entrano in un hangar e improvvisamente si ritrovano nel futuro. Sembra di essere sul set di un film di fantascienza. Ovuli d’acciaio grandi come navicelle spaziali, montati su stantuffi idraulici delle dimensioni di una quercia, si muovono ondeggiando in ogni direzione come ballassero una danza sfrenata.

«C’è tempesta» dice la guida, e spiega che si tratta di simulatori all’interno dei quali gli elicotteristi provano le condizioni di volo più estreme. In un’altra zona la cabina di un elicottero è sospesa sopra una piscina, ma può spostarsi a ridosso di una parete rocciosa, per l’addestramento degli equipaggi dell’elisoccorso in quota o in mare.

«E adesso andiamo a vedere l’opera oggetto del vostro interesse. Sappiate che a un certo momento, nella storia travagliata di questa industria, la si voleva abbattere. Oggi rimane un po’ nascosta dalla vegetazione, ma è ancora lì».

Il piazzale principale, quasi una rotonda sopraelevata, presenta al suo centro una specie di boschetto. Gli girano intorno.

«Non ci posso credere» dice Giuseppe.

E racconta la storia di quel giorno del 1981, era uno dei primi lavori cui prendeva parte. Quando i muratori esperti con i quali viaggiava gli avevano mostrato i disegno di ciò che andavano a costruire aveva creduto lo prendessero in giro.

E invece eccola lì, enorme, possente, ancora integra dopo più di quarant’anni: grande come un elefante, un’incudine di cemento armato, monumentale, sormontata da vele d’acciaio, a simboleggiare la forza dell’industria pesante, capace di far volare masse e carichi impensabili. Era il simbolo dell’Agusta, ma ricorda anche il profilo dello Sparviero.

Giuseppe tocca la grande incudine come fosse un animale vivo, ritrovato dopo decenni. Quelle forme sono state plasmate dalle sue mani, quand’era un ragazzino, e apprendeva l’arte del lavorare il cemento da suo padre e suo zio.

«Dopo l’epoca Agusta, nel 1997 è arrivata FinMeccanica, e dopo FinMeccanica, nel 2016 il nuovo assetto e la nuova denominazione… » spiega la guida, e alza lo sguardo all’insegna piuttosto misera e già quasi scolorita che campeggia sopra i cancelli d’ingresso, insieme a una serie di bandiere europee a loro volta sbiadite, e in parte anche sfilacciate.

«Leonardo? Ma in omaggio a Leonardo da Vinci?» chiede Leone. La guida conferma. Giuseppe scherza. Leonardo mi perseguita, dice. La visita è conclusa.

Nel viaggio di ritorno sensazioni contrastanti. Da un lato per Giuseppe la soddisfazione, l’emozione, l’amarcord d’aver ritrovato il primo manufatto in cemento, non privo di difficoltà tecniche, al quale lavorò da giovanissimo. Dall’altro la malinconia, il senso di perdita per l’eccellenza tecnologica, per il genio industriale italiano.

«L’incudine di Leonardo però è un bel simbolo» dice Leone. Rappresenta  la tenacia di chi ingegnerizza, un lavoro continuo per plasmare la materia e la forma fino ad ottenere la funzione del progetto. Giuseppe concorda: «Il duro lavoro che ti permette di trasformare un’idea in realtà».

Usciti dall’autostrada, abbassano i finestrini. Sta arrivando la primavera. C’è qualcosa nell’aria. Improvvisamente, il ricordo di un film bellissimo, un film d’animazione che racconta la storia di un bambino, che poi diventerà un grande ingegnere, innamorato dei fantastici aerei italiana di quegli anni. Te lo ricordi? com’era il titolo?

Certo, il capolavoro del grande Miyzaki, premio Oscar: ”Quando si alza il vento”.  Che a sua volta riprende un verso di Paul Valery: “Quando si alza il vento, bisogna cominciare a vivere”.

«E così faremo! Alla prossima!»

Blog